Jan 01
Nulla andrà perduto.

“La nostra vita si dissolverà come nebbia messa in fuga dai raggi del sole e abbattuta dal suo calore. Passaggio di un’ombra è infatti la nostra esistenza e non c’è ritorno quando viene la nostra fine” (Sap 2,4-5).
Questa, che nel Libro della Sapienza è l’opinione degli empi, è anche una tentazione per tutti gli umani, per noi. Ma quando viviamo ore di angoscia, di paura della morte, a noi cristiani è chiesto di fare memoria delle parole di Gesù: “Sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza” (cf. Gv 10,10). Parole che narrano il cuore del Padre, di Dio (cf. Gv 1,18) che ci viene incontro e ci rialza, ci rimette in cammino. Solo in un incontro personale con il Dio dei viventi, il Dio che è stato, ed è ancora, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe, possiamo rinnovare la fede nella resurrezione.
L’istituzione ebraica del levirato, evocata in questo vangelo dalla domanda dei sadducei, era un tentativo di risposta allo scandalo della morte (perché la morte è da sempre uno scandalo): si generava un’altra vita con una paternità surrogata, perché qualcosa del morto (che non aveva avuto figli) continuasse a vivere nel nuovo nato.
I sadducei si muovono all’interno di questo orizzonte, e con la loro domanda vogliono far emergere l’assurdità della resurrezione. Ma proprio in questo svelano la loro non conoscenza di Dio e della Scrittura. Citano quest’ultima, ma la leggono male. “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?” (Lc 10,26), chiede Gesù in un altro contesto a un esperto di Scrittura. Come leggi? Perché si può leggere la Scrittura, anche da esperti, e non capirla. I sadducei la intendono come una regola da applicare e che funziona automaticamente: “Se un uomo muore senza lasciare figli, bisogna che... ”. Non sentono l’urgenza di restituire quelle parole alla vita, di entrare in dialogo con il Dio vivente. Il Dio dei sadducei è un Dio morto. Oltre tutto, se davvero conoscessero Dio, non si permetterebbero di fare del dolore umano (la morte di una persona cara) un oggetto di casistica con insensibilità e cinismo.
“Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità” (Sap 2,23) e noi diventeremo “figli della resurrezione” (Lc 20,36). La morte non avrà l’ultima parola. Quando i morti risusciteranno, dice Gesù, saremo “come angeli nel cielo”, un modo per dire che avrà inizio un’altra realtà, in discontinuità con il nostro mondo e della quale non sappiamo molto. Sappiamo solo che in questa vita siamo amati e questo ci permette di cantare a Dio con il salmista:
“Non abbandonerai la mia vita negli inferi,
non lascerai vedere al tuo amico la fossa” (Sal 16,10).
E insieme a ciascuno di noi, osiamo sperare, ci sarà anche tutto quello che abbiamo amato, che ci ha costituito come persone, come viventi:
“Tutto sarà trasfigurato. Tutto ciò che avremo amato, tutto ciò che avremo creato, tutta la gioia e tutta la bellezza avranno posto nel Regno” (Atenagora).
“A noi dovrebbe bastare l’essere convinti che la realtà dopo la resurrezione della carne sarà comunione con Dio e con tutti gli umani e che in questa comunione nulla andrà perduto dell’amore che abbiamo vissuto, amando e accettando di essere amati” (E. Bianchi).
sorella Laura.
Beato di Liébana, Códice di Fernando y Dña. Sancha, manoscritto miniato, 1047.
P. Gianfranco